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Non si cambia cultura senza investire in una formazione nella società
I femminicidi non diminuiscono, anzi i giovani maschi sono sempre più efferati nelle violenze. Serve una rivoluzione culturale, ma per attuarla è necessario investire in una formazione sistemica e in un ruolo diverso della donna nella società
Nel Global Gender Gap del World Economic Forum, sui Paesi con comportamenti virtuosi nei confronti delle donne, l’Italia è precipitata al 79mo posto. Al ritmo attuale ci vorranno 132 anni per raggiungere la parità totale. Dopo decenni di battaglie femministe, siamo ancora costretti a constatare la visione del corpo della donna come oggetto da possedere, da sottomettere, da usare, figlia della peggiore cultura arcaica e patriarcale.
Guardare indietro aiuta a capire da dove veniamo, per comprendere quanto c’è ancora da fare. In Italia il delitto d’onore è stato abolito nel 1981, insieme al matrimonio riparatore. La violenza sessuale è divenuta reato contro la persona solo da 27 anni, nel 1996. Prima, con il Codice Rocco di epoca fascista, lo stupro era un reato contro la morale. Siamo un Paese immaturo? Senz'altro siamo un Paese che ancora non accetta la cultura del rispetto, della parità, dei diritti delle donne.
La violenza di genere ha una matrice culturale, anche perché si fonda sulla disparità. La cultura patriarcale, dalla notte dei tempi, attribuisce un ruolo minoritario alla donna che a sua volta introietta, anche inconsapevolmente, una serie di comportamenti per aderire o avvicinarsi a quel modello. E nell’educazione delle bambine (come, d’altro canto, dei maschi) il più delle volte si trasmette di generazione in generazione questo modello.
A tal punto che le donne, a volte, non percepiscono alcune avvisaglie. La gelosia, il possesso, il dover chiedere permesso ad un uomo, l’isolamento che i violenti attuano verso le compagne, sono indicatori di una relazione non paritaria, di una pericolosa limitazione della libertà e dei diritti. Se un uomo controlla o gestisce il denaro e le spese della propria compagna – in Italia una donna su tre non ha un conto corrente personale - è violenza economica, una via facile di accesso per quella psicologica e fisica. Per una serie di ragioni, chi subisce violenza – che sia economica, psicologica, fisica, digitale - non sempre la riconosce subito come tale. Se molto è stato fatto soprattutto dalle associazioni sul campo, c’è ancora strada da fare sull’emersione della violenza di genere.
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Una donna viene uccisa ogni tre giorni da un uomo mentre continuano, incessanti e inaccettabili, le violenze sessuali, i maltrattamenti e le molestie, lo stalking, la violenza psicologica e quella economica, il revenge porn e la violenza digitale. In Italia le leggi contro la violenza sulle donne ci sono, non è tanto un problema di norme, a detta delle esperte che da anni lavorano sul campo. Il disegno di legge Roccella è stato approvato in via definitiva e implementa il Codice Rosso del 2019 e tutte le precedenti norme contro la violenza di genere.
A nome dell’Intergruppo della Camera per le Donne, i Diritti e le Pari Opportunità che coordina, Laura Boldrini ha annunciato anche una legge specifica sulle molestie ma anche per allungare i tempi per denunciare una violenza: dall’attuale anno a tre anni. È come quando si elabora un lutto: ci vuole tempo per metabolizzare e prendere coraggio. “I tempi sono quelli delle ragazze e delle donne”, ha tenuto a precisare l’ex presidente della Camera.
Le leggi ci sono quindi, ma riguardano - a detta degli esperti - la repressione del fenomeno, aspetto comunque fondamentale per creare uno stigma sociale contro la violenza di genere; quasi per niente, però, i provvedimenti riguardano la prevenzione, che si gioca quasi tutta sulla formazione del personale sanitario che accoglie una donna maltrattata, delle forze di polizia che accettano le denunce o le richieste di aiuto; dei giudici che scrivono le sentenze. Ma non solo.
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“Se le ragazze fossero rimaste accanto al focolare, dove era il loro posto, se non fossero uscite di notte, se non avessero accettato di andare a casa di quei ragazzi, non sarebbe accaduto nulla”. Questo sosteneva l’avvocato di Gianni Guido nell’arringa finale del processo a quei “bravi ragazzi” del massacro del Circeo. Era il 1975. Lo stupro non era ancora reato contro la persona, ma contro la morale.
Il sessismo nei tribunali c’è ancora, riguarda oggi soprattutto le sentenze. Nelle motivazioni scritte dai giudici che hanno negato l’ergastolo al killer di Carol Maltesi (condannato a 30 anni), leggiamo che la vittima di femminicidio era “disinibita” e che lui “si sentiva usato”. O che la cosiddetta “palpata breve” non è reato. O ancora, il datore di lavoro accusato di molestie, assolto, la dipendente era “complessata”. E poi ancora si è scritto che la vittima era "troppo brutta e mascolina”. Nel 1999 la clamorosa sentenza dei jeans: non poteva essere stupro perché quei pantaloni non si possono togliere "senza la fattiva collaborazione di chi li porta".
Gli esempi potrebbero continuare. Non a caso l’Italia è stata più volte condannata per sessismo nelle sentenze dal Comitato Cedaw dell’Onu e dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Le motivazioni, come uno specchio della società, sono impregnate di pregiudizi sessisti ai danni delle donne e questo non fa che perpetuare la vittimizzazione secondaria, la minimizzazione, la banalizzazione e la normalizzazione della violenza maschile sulle donne. “In alcune sentenze - afferma l’avvocata Teresa Manente, responsabile dell'Ufficio legale di Differenza Donna - è come se la violenza fosse la reazione a un comportamento delle donne. La verità è che non si accettano le conquiste di libertà e i diritti delle donne. La violenza di genere è il prodotto di una ribellione delle donne”.
Differenza Donna svolge da anni corsi di formazione anche per i giudici nei tribunali. “Il problema è che debbono essere istituiti corsi di formazione obbligatori in maniera continua e sistemica per magistrati, operatori delle forze dell’ordine, servizi sociali, operatori sanitari – afferma Manente -. Perché solo conoscendo il fenomeno e capendone le cause culturali e storiche possiamo veramente avere un’applicazione delle leggi nazionali che seguono i principi delle leggi internazionali come la Convenzione di Istanbul e la Convenzione Cedaw”.
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Se una donna non lavora e non ha un conto corrente personale ha ancora più rischi di subire la violenza. In Italia c’è quindi da affrontare il problema della grave disoccupazione femminile, soprattutto al Sud. Inoltre, i ruoli sociali e familiari e i lavori di cura non retribuiti in Italia sono ancora in maniera sproporzionata (oltre il 70%) a carico delle donne. “Il Pnrr è l’investimento che dobbiamo cogliere: servono più asili nido, più welfare. Non è solo un problema per le donne ma un problema di applicazione della democrazia in Italia”, sottolinea Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna.
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Quando una donna vittima di violenza chiede aiuto, il primo impatto con chi la accoglie è importantissimo, fondamentali le informazioni che si danno. La formazione del personale è importante affinché sappia intercettare i segnali di violenza su una donna che denuncia o chiede aiuto o si presenta in pronto soccorso con segni di maltrattamenti. “Non tutte le donne sono pronte a raccontare subito in una maniera esplicita quello che è successo. È compito delle istituzioni lavorare in rete con gli altri attori della rete antiviolenza. La formazione è la chiave perché questa rete possa essere attivata”, spiega Sabrina Frasca, responsabile della formazione presso Differenza Donna.
Spesso accade che una donna chiede aiuto e chi avrebbe dovuto proteggerla la espone ad ulteriori rischi. Se un operatore non è correttamente formato potrebbe sottovalutare il pericolo che la donna corre e non attivare le procedure di protezione. Potrebbe addirittura sottoporla ad ulteriori violenze, facendo domande inopportune; potrebbe ignorare del tutto il bisogno di protezione e di sicurezza della donna; o potrebbe commettere errori che mettono a rischio la vita di quella donna.
Quando una donna arriva in pronto soccorso con una lesione siamo in una fase della violenza molto acuta perché le lesioni arrivano in una fase avanzata del maltrattamento. “Se un medico non è formato penserà ad uno schiaffo come ad un episodio di poca gravità mentre la donna potrebbe essere in pericolo di vita”, spiega Frasca.
Tutto questo non è scontato. Ancora oggi la sottovalutazione della violenza è frequente, ecco perché dovrebbe esserci un impegno anche economico perché si avvii una formazione sistemica nella società, indispensabile per un reale cambiamento. Dare competenze agli attori della rete antiviolenza ma anche all’interno di qualsiasi categoria professionale, in qualunque luogo abitato da donne, anche per le violenze invisibili, basti pensare alle molestie sul lavoro. La formazione dovrebbe essere inserita in modo sistemico nei corsi di laurea di tutte le professioni che sono nella rete antiviolenza (da medicina a psicologia a sociologia), ma anche nelle scuola di polizia. “Si fanno nuove leggi ma non si va ad attaccare realmente la questione culturale stanziando fondi per la formazione”, spiega Frasca.
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Bisogna sfatare un altro tabù: gli uomini violenti non si presentano come “mostri”; il più delle volte sono uomini apparentemente normali. Ma c’è un dato emergente che allarma, ossia che le nuove generazioni di maschi sono ancora più violente delle precedenti. Se le donne oggi denunciano prima e sono più informate, raccontano però che i loro giovani partner o ex sono diventati più violenti in un tempo molto breve.
È la cosiddetta “escalation della violenza”, oggi più veloce e più pericolosa: si attua in un periodo di massimo tre anni mentre prima avveniva in 10 anni, spiega Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna. Ecco perché è ormai indispensabile anche la formazione continua e l’educazione sessuale nelle scuole, per guidare gli uomini e le donne di domani verso modelli di relazione uomo-donna differenti.
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Il viaggio nell’orrore senza fine passa attraverso una violenza invisibile e tremenda, molto diffusa, quella sulle donne con disabilità. I primi dati Istat a riguardo escono nel 2014 ed emerge che il 72% delle donne disabili aveva subito violenza nell’arco della vita e che sono vittime di violenza sessuale più del doppio rispetto alle normotipiche.
Anche in questo caso, a fronte dei dati che emergono, il sommerso si stima enorme. Basti pensare che alle indagini Istat, fatte per telefono, non potevano rispondere donne sorde o con disabilità cognitiva, fa notare Rosalba Taddeini, referente dell’Osservatorio nazionale contro la violenza sulle donne con disabilità di Differenza Donna.
Le vittime di violenza spesso, ancora oggi, non vengono credute: per le donne con disabilità è quasi la norma perché si pensa, a causa di altri pregiudizi e stereotipi, che non abbiano una sessualità. Come nel caso di Maria, violentata tre volte al giorno dai 7 ai 27 anni. Nessuno le credeva, perfino la sua psicologa sosteneva fossero “fantasie”. Fin quando, grazie ad una magistrata che chiese le rilevazioni ambientali, sono state trovate le conferme. O come nel caso di una donna sorda che aveva scritto la denuncia di violenza contro il proprio partner: le forze dell’ordine la riportarono a casa dal compagno, parlando di “banali conflitti”.
Anche su questo tipo di violenza è necessario agire su due fronti: l’emersione del fenomeno e la formazione del personale delle forze dell’ordine e sociosanitario e l’educazione sessuale nelle scuole. Anche perché le ragazze disabili sono spesso isolate, non invitate nei gruppi di amici, quindi scoprono la sessualità, spesso attraverso i social network, senza esperienze e mediazioni.
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Sul territorio, oltre al numero nazionale antiviolenza e antistalking 1522, ci sono presìdi gestiti da personale qualificato dove chiedere aiuto. I Centri antiviolenza sono i luoghi dove rivolgersi per essere informate e accolte e guidate in un percorso di uscita dalla violenza. Le Case Rifugio sono invece le strutture in grado di ospitare e mettere in protezione donne in grave pericolo, anche con i loro figli.
Ma l’Italia è un Paese stretto e lungo, con molte zone interne e lontane dalle grandi città, con il solito divario tra Nord e Sud anche nella distribuzione di queste preziose sentinelle. C’è bisogno di un maggior numero di posti nelle Case Rifugio per salvare vite: ad oggi, fa sapere Differenza Donna, non arriviamo al 10% dei posti che dovremmo avere per lo standard europeo che parla di 1 posto ogni 15.000 abitanti. E i fondi sono quasi sempre insufficienti, rileva l’associazione D.i.re (Donne in rete contro la violenza).
A Roma abbiamo visitato un Centro antiviolenza storico (che è anche Casa Rifugio), quello di viale di Villa Pamphili, aperto nel 1992 e gestito dall’associazione Differenza Donna. Sono in media circa 350-400 all’anno le donne che si rivolgono qui per essere aiutate e sono aumentate negli anni grazie al lavoro di emersione della violenza. Ci sono poi le donne ospitate, perché in grave pericolo: qui sono una ventina ogni anno. “Abbiamo otto camere per donne con o senza figli - racconta Arianna Gentili, che gestisce la struttura - Le ospiti cucinano in base alle proprie abitudini alimentari, il cibo si condivide”. Durante la permanenza in un Cav, una volta garantita la sicurezza, le donne tornano a lavorare, i bambini sono inseriti a scuola, frequentano scuole e centri estivi. “L’idea non è quella di nascondersi ma di riappropriarsi della propria libertà e della propria vita”, racconta Arianna. Mediamente l’ospitalità in una Casa rifugio dura sei mesi e le donne che non hanno un’autonomia economica, dunque vivono in una situazione di ricatto, non vengono solo messe in protezione ma accompagnate in un percorso di indipendenza.
Il messaggio positivo è che dalla violenza se ne può uscire ma è fondamentale chiedere aiuto. La storia che segue e che chiude questo magazine, quella della giovane Valentina, ne è una conferma. Un augurio a tutte le donne in difficoltà.
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