Eppure, nei souk di città e campagna, i sacchetti di plastica, in arabo 'mika', continuano a circolare.
La legge entrata in vigore il 1° luglio del 2016, su impulso reale, ha solo in parte raggiunto i suoi obiettivi, con innegabili impatti positivi, tra cui la promozione dello sviluppo sostenibile. Ma una sorta di resistenza sociale, da parte della popolazione più povera e meno sensibile ai temi dell'inquinamento, ne mina l'efficacia. Il mercato formale, quello della grande distribuzione e della rete dei dettaglianti nelle città ha recepito il divieto, venditori e consumatori dei mercati informali, invece, i souk, non possono permettersi le alternative ecologiche.
Gli osservatori socioeconomici premono per un programma ecologico che includa un piano di lotta alle disuguaglianze e alla povertà. Soprattutto perché i lavoratori del settore informale rappresentano una parte significativa dell'economia nazionale.
Secondo le stime del WWF nel 2019, dunque già tre anni dopo la legge, il Marocco ha prodotto più di 570.000 tonnellate di rifiuti di plastica all'anno. Il Consiglio economico sociale e ambientale del Marocco, organismo costituzionale e indipendente, rileva che nel 2020 il Paese ha prodotto più di 7 milioni di tonnellate di rifiuti domestici. Fuori dal circuito delle grandi città il controllo sull'applicazione della legge è molto difficile, l'uso di reti clandestine e il contrabbando, il costo più elevato di alternative sostenibili per alcuni consumatori e la mancanza di adeguati canali di riciclaggio, fanno il resto.
Le alternative alla plastica non sono ancora sufficientemente motivanti, gridano gli esperti. E senza una crescita di consapevolezza ambientale, il cambio di marcia risulta difficile, anche se la promozione di alternative sostenibili si fa strada nel mercato e l'incoraggiamento della ricerca e dell'innovazione nella gestione dei rifiuti di plastica è caldeggiata dal governo.
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