(di Lorenzo Trombetta)
ROMA - "È normale avere paura?" si chiede una giovane donna libanese, originaria del sud del Libano, terra martoriata da otto mesi di guerra tra Hezbollah e Israele. La donna è una 'sfollata di lusso' rispetto ai circa 100mila libanesi che hanno dovuto lasciare le loro case travolte dal conflitto armato. Lei è ora nella capitale Beirut e può permettersi una costosa terapia psicologica per affrontare le sempre più ricorrenti crisi d'ansia e attacchi di panico.
Non dovremmo avere paura... perché facciamo parte di una causa", afferma la donna, riferendosi alla causa della resistenza contro il nemico israeliano incarnata dagli Hezbollah, alleati di Hamas e dell'Iran.
Dania Dandashli, la terapeuta che ha in cura la giovane donna, racconta al quotidiano L'Orient-Le Jour quanto "sotto la superficie della resistenza" ci sia "dolore". "Basta grattare un po' perché questo dolore emerga".
La guerra tra il movimento armato libanese e lo Stato ebraico è in realtà l'ultimo colpo, in ordine di tempo, di una serie di "calamità" che si sono abbattute sui libanesi negli ultimi cinque anni. Prima la crisi finanziaria, ancora in corso, palesatasi nel 2019. Poi la pandemia, quindi l'esplosione del porto di Beirut nell'agosto del 2020.
Una serie di psicologi libanesi, citati dal giornale francofono, affermano che sono aumentati in modo esponenziale i casi di violenze domestiche, contro donne e figli, così come sono sempre più numerosi uomini e donne che mostrano tendenze suicide.
La guerra con Israele e il conseguente sfollamento di decine di migliaia di persone ha aumentato il senso di disorientamento: "la perdita dei punti di riferimento provoca una grande sofferenza psicologica tra gli sfollati", affermano i terapeuti.
Molte persone reagiscono trasformando la situazione eccezionale in una finta normalità.
"All'inizio, il genocidio a Gaza era molto presente nelle mie sessioni, tutti ne parlavano; era come dopo l'esplosione del porto. Ma poco a poco, è diminuito", racconta la psicologa Dandashli, secondo cui i libanesi mostrano una sorta di "adattamento alle ricorrenti crisi".
Ma è una situazione viziosa e non virtuosa: "siamo certamente resilienti - afferma - ma siamo stanchi. Tutte queste prove lasciano il segno".
In una classe dalla vernice scrostata a Tiro, capoluogo del sud del Libano, quindici donne sono sedute in cerchio su sedie scolastiche. Provengono dalle località più colpite sulla linea del fronte con Israele.
Qui, una psicologa di una organizzazione non governativa gestisce sedute di terapie di gruppo gratuite. Perché nel Libano al collasso economico sono in pochi quelli che possono permettersi di spendere per ogni incontro 70 dollari, l'equivalente in lire libanesi di uno stipendio mensile di un impiegato pubblico.
E a Beirut, la giovane donna che si chiede se sia normale avere paura ricorda quando, all'età di nove anni, durante la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006, il padre le ripeteva: "rimani forte!". Mi chiedeva perché avessi paura, ricorda. E mi diceva: "dobbiamo resistere".
Oggi, questa stessa donna si dice "divisa in due tra comprendere che sia importante politicamente mostrarci tenaci di fronte al nemico, e la rabbia per non aver avuto lo spazio per esprimere i miei sentimenti". (ANSAmed).
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