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Da migrante a scrittore, la storia del senegalese Ibrahima Lo

'Oggi sono veneziano'. In uscita il suo secondo libro

12 giugno 2024, 12:12

Redazione ANSA

ANSACheck
Ibrahima Lo (Foto di Marta Buso) - RIPRODUZIONE RISERVATA

Ibrahima Lo (Foto di Marta Buso) - RIPRODUZIONE RISERVATA

(di Valentina Maresca) (ANSAmed) - ROMA, 11 GIU - Voleva diventare scrittore e giornalista d'inchiesta, aveva ottimi voti ma non i mezzi per studiare. Così Ibrahima Lo a 16 anni ha lasciato il Senegal approdando in Italia dopo un'odissea che ha raccontato ad ANSAmed.

Oggi, ormai 23enne, firma il suo secondo libro in uscita il prossimo 15 giugno e dal titolo 'Nuovo viaggio - La mia voce dalle rive dell'Africa alle strade d'Europa'.

Figlio unico, dopo aver perso la madre a 10 anni e il padre a 15, Ibrahima decide di lasciare il Senegal per realizzare i suoi sogni. "Nonostante abbia sempre avuto dei bei voti a un certo punto non potevo più studiare, il mio amico Mohammed mi diceva che sarei finito in strada e nel mio Paese non avevo un futuro. Per questo sono partito di nascosto alla zia cui ero stato affidato dopo un anno a casa, dai 15 ai 16 anni", esordisce il ragazzo. Ma i viaggi 'facili' per l'Europa di cui gli dicevano erano un'illusione: "Ho impiegato nove giorni per attraversare il deserto del Sahara. Arrivati all'ottavo è finita l'acqua, allora gli autisti sono andati a cercarla. I miei compagni di viaggio e io li abbiamo attesti una giornata intera e nel frattempo credevamo di morire, c'è stato anche chi per la sete ha provato a bere la sua urina. Per chiedere aiuto con del fumo abbiamo bruciato dei bidoni, quando gli autisti sono tornati con l'acqua ci hanno rimproverato per questo ma noi eravamo allo stremo, disperati". Giunti in Libia, l'illusione che il peggio fosse passato si infrange nelle varie prigioni in cui il giovane è trasportato di volta in volta, stipato con altri migranti in portabagagli.

"Quando ci facevano uscire non riuscivo a reggermi in piedi, ci davano solo pane e acqua (titolo del primo libro di Ibrahima, ndr), ci picchiavano, i nostri bisogni li facevamo vicino a dove dormivamo. I carcerieri per liberarci volevano soldi, ma mentre io avevo il numero di Mohammed per chiedergli di pagare l'uscita dal Paese, altri non avevano nessuno da chiamare. Due gambiani e un nigeriano si sono detti che dovevano scappare parlando in inglese, ma i libici sapevano la lingua e li hanno capiti. Prima li hanno picchiati a sangue usando il kalashnikov, poi li hanno uccisi", ha continuato. Le violenze non finiscono con il triplice omicidio ma proseguono sugli altri presenti, lui incluso: "Allora ho pensato che potevo vivere senza arti ma non senza testa e con le mani mi sono difeso, fino a quando sono andati via. Il mio corpo era pieno di ferite, ne avevo una enorme sul braccio di cui porto la cicatrice".

"Quando ho visto il gommone su cui dovevamo salire in 120 e ci hanno detto di togliere i jeans perché con i bottoni avremmo rischiato di forarlo, volevo tornare indietro perché non mi fidavo", confessa Ibrahima, che ha cambiato idea convinto dai suoi compagni. Ma dopo quattro ore il gommone inizia a imbarcare acqua. "Metà imbarcazione iniziava ad affondare, abbiamo invocato i nomi dei nostri cari piangendo forte. La nostra paura era non solo di morire, ma anche di essere riportati indietro dai maledetti uomini della Guardia costiera libica. Poi abbiamo visto un segnale rosso: era una Ong che ha salvato il nostro gommone e un altro con solo quattro superstiti, ho imparato la parola 'cadaveri' quando ho visto decine di sacchi neri portati sulla nave. Ho visto un uomo piangere perché aveva assistito alla morte della moglie, caduta da un lato del gommone, e della figlia, annegata dall'altro lato: la sua storia mi ha spinto a raccontare la mia".

Approdato in Italia, Ibrahima è prima a Bari, poi ad Alpago, a Belluno e infine a Venezia, dove attualmente vive e ha deciso di fare la prima presentazione del suo secondo libro il prossimo mese. "Nel centro per minori non accompagnati ho ricominciato a poter studiare. Per me diventare un giornalista non significa intervistare i ricchi, ma parlare a nome dei deboli".

Anche in Italia la vita non gli è stata amica, perché una volta diventato maggiorenne Ibrahima deve mantenersi, ha bisogno dei documenti di soggiorno e per questo lavora, ma senza che gli venga riconosciuta alcuna dignità: "Ho lavorato come lavapiatti per 10-11 ore al giorno a 300 euro mensili, il datore di lavoro sapeva la mia situazione e per questo mi sfruttava. Ho tenuto duro perché l'alternativa era spacciare droga, rubare o chiedere i soldi in giro, ma così avrei bruciato il mio futuro e io avevo promesso a mio padre che avrei seguito le orme del giornalista senegalese cui mi ispiravo, Pape Alé Niang".

La svolta arriva quando il ragazzo conosce la proprietaria di Majer, cui Ibrahima aveva ceduto il posto in autobus ignaro della sua identità e che qualche giorno dopo incontra in uno dei suoi punti vendita mentre faceva colazione. "Lei mi ha riconosciuto, offrendomi la colazione e un lavoro. Da allora la mia situazione è migliorata sempre di più", anche perché entra nella sua vita pure Antonella Costantina, che Ibrahima chiama 'mamy' e con cui ha vissuto per quasi un anno sotto lo stesso tetto. La donna, attiva nell'ambito dell'associazione 'La Casa di Amadou', è ormai per il giovane un punto di riferimento imprescindibile, affettivo in primis.

"Lei ormai è famiglia, che non riguarda solo legami di sangue. Grazie ad Antonella ho imparato l'italiano e il veneziano e lei grazie a me ha conosciuto il Senegal, che non ha mai visitato". Ibrahima ora è impegnato nel portare la sua testimonianza a studenti in scuole e università, ma anche confrontandosi con magistrati, rappresentanti istituzionali europei e cineasti.

"Due anni fa, dopo l'uscita del mio primo libro 'Pane e acqua - Dal Senegal all'Italia passando per la Libia', mi chiamò la segretaria di Garrone dicendomi che il regista lo aveva letto, quindi mi ha invitato alla Mostra del Cinema quando è uscito il film". L'amore per La Serenissima e non solo chiude il suo racconto: "Io sono veneziano, amo e sono grato a Venezia: è casa mia, ma la amo anche per i suoi ponti che collegano le isole e sono la metafora di collegamenti che dobbiamo imparare per una vita migliore in un mondo pieno di guerre e violenze".

(ANSAmed).

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