(di Patrizia Campagnano)
TEL AVIV - Galit ha perso il figlio nel massacro del 7 ottobre. Il suo lavoro da ostetrica all'ospedale Soroka di Beer Sheva l'aiuta a non pensare mentre fa venire al mondo nuove vite. Ma il destino perverso, pochi mesi dopo l'assassinio di Itay, l'ha messa davanti a una prova feroce: tra le partorienti che stava assistendo c'era una giovane beduina, con il cognome del boia, Haniyeh. Il capo politico di Hamas, dei terroristi che quel sabato nero hanno fatto fuoco contro il suo ragazzo valoroso.
"Un giorno di marzo, su un letto del reparto tra le donne pronte a entrare in sala parto c'era lei, una donna con il nome di Ismail Haniyeh, era la nipote, l'ho riconosciuta", ha raccontato Galit parlando per la prima volta alla tv pubblica israeliana Kan. Tentando di descrivere la tempesta di sentimenti che in un attimo si sono abbattuti sul suo animo in lutto: rifiuto, conflitto interiore, incapacità di reagire, il respiro che manca, la razionalità che vuole cedere alle emozioni, la ragione che preme, l'imperativo di fuggire. "La mia prima reazione è stata quella di scappare fuori, riprendere fiato. Mi sono chiesta come avrei potuto aiutare la nipote di chi ha ucciso mio figlio. È stato uno schiaffo del destino e della realtà con cui devo fare i conti ogni giorno", ha ricordato Galit. Un momento agghiacciante da affrontare, come se non fosse bastato quello che già aveva vissuto a ottobre. "Dentro di me, dopo i primi momenti di shock, ho sentito il bisogno di dimostrare a me stessa che potevo continuare a fare il mio lavoro, continuare nella mia missione. Proprio al Soroka di Beer Sheva, un ospedale che è un modello di convivenza tra arabi e israeliani". Nonostante il dolore, Galit ha deciso di assistere la donna a partorire: "Suo zio ha ucciso mio figlio, non ero costretta a far nascere il suo bambino, poteva aiutarla un'altra ostetrica al posto mio. Ma ho deciso di andare avanti, di procedere con professionalità e distacco, l'ho assistita a dare alla luce suo figlio", ha detto, certa di aver fatto la cosa giusta, "ora spero tanto che questa donna ricordi il trattamento che ha ricevuto e lo trasmetta ai suoi figli".
Galit poi ha voluto ricordare quella mattina del 7 ottobre.
Era di turno in ospedale quando la prima sirena ha incominciato a suonare. "Stavo accudendo un neonato palestinese. Nel reparto erano ricoverate solo due pazienti, entrambe palestinesi, una di Betlemme e l'altra di Nablus", ha detto richiamando alla mente i ricordi, "avevamo instaurato un bel rapporto. Dentro di me pensavo, speravo, che insieme tra donne avremmo potuto salvare il mondo". Alle sette del mattino è arrivata la telefonata dal marito che la esortava a non uscire da Beer Sheva, "fuori c'era il caos. Sparano ovunque per strada". In quel momento il figlio più giovane, Itay, si era unito alla squadra di emergenza del Moshav Niftachim, nella zona di Eshkol, nel nord ovest del Negev, per aiutare i residenti del villaggio vicino assediato dai terroristi. Poco dopo le sette un'altra telefonata del marito Oded: "'Itay è stato ucciso'. Ho fatto una corsa in macchina per vederlo per l'ultima volta", ha proseguito Galit.
"Ancora oggi, ogni mattina e sera vedo quell'immagine, non potrò mai dimenticare". Oded è rimasto per cinque ore abbracciato al suo corpo per paura che i terroristi lo rapissero da morto. Dopo un'attesa infinita i soccorritori sono arrivati, hanno salvato il cadavere di Itay dai tunnel di Gaza.
Dopo alcuni mesi, Galit è tornata al lavoro. Per settimane aveva rifiutato l'idea di "portare il lutto nella sala parto, dove invece ci deve essere gioia e vita". Oggi non si sente più ottimista come prima del 7 ottobre, e riconosce che ci vorrà tempo per affrontare le ferite. Soprattutto dovrà finire la guerra. L'ospedale Soroka, dove vanno a partorire le donne palestinesi sarà il posto giusto per ricominciare a credere in un futuro migliore.
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