Trend del momento o nuovo modo di approcciarsi al mondo del lavoro? Il quiet quitting è sicuramente uno dei fenomeni di cui si parla.
Nonostante la traduzione letterale dall’inglese possa portare a pensare ad una forma di ‘dimissioni silenziose’, to quit significa smettere, il termine va a definire qualcosa di diverso dalle dimissioni vere e proprie:
il quiet-quitting si riferisce infatti ad un comportamento lavorativo che si traduce nel ‘fare lo stretto necessario’, limitandosi a svolgere ‘il minimo sindacale’ richiesto dalla propria mansione, e nulla più; Non è certo una novità, quello che è nuovo è che è una sorta di ‘epidemia collettiva’, di scarsa voglia di impegnarsi nel proprio lavoro che sentiamo comune. Cosa ci sta accadendo, cosa è alla base di questo comportamento?Ribellione o insoddisfazione di massa? Per comprendere questo fenomeno, può essere opportuno chiedersi come mai il quiet-quitting stia emergendo in questo specifico momento storico. Alcune possibili spiegazioni rimandano ad una silenziosa ‘ribellione’ rispetto alla cultura del super-lavoro: il passaggio dal ‘workaholism’ al quiet-quitting sarebbe quindi conseguente alla presa di coscienza dei potenziali rischi per la salute fisica, emotiva e anche relazionale della persona. Abbiamo letto una ricerca condotta da TherapyChat in collaborazione con Ipsos: emerge che il 46% dei lavoratori sostiene che la propria condizione lavorativa ha influenzato molto il proprio benessere psicologico. È possibile ipotizzare, dunque, lo sviluppo di un parallelo desiderio di riappropriarsi di quella rilevante parte della vita che non coincide con il lavoro e la professione: la pandemia ed i vari lockdown avrebbero condotto ad una generale rivalutazione di tutte le attività del tempo libero e dei contatti sociali, portando alla ricerca di un diverso equilibrio tra lavoro e vita privata, equilibrio che, per molte persone, nel periodo di smart working risultava essere davvero molto difficile da mantenere, in quanto fortemente sbilanciato verso il versante lavorativo.
In alcuni casi, invece, il quiet-quitting può essere legato ad una specifica dimensione aziendale o organizzativa considerata come negativa, o quanto meno non stimolante e non valorizzante, piuttosto che ad un generale atteggiamento verso l’equilibrio casa-lavoro: in questa accezione, il quiet-quitting diventerebbe una forma di quello che la psicologia definisce ‘counter-productive work beheviour’, una forma di comportamento lavorativo anti-produttivo, controproducente che spesso si riscontra in lavoratori insoddisfatti e poco motivati.
In questo caso, sarebbero infatti un clima aziendale non positivo, oppure una tipologia di gestione aziendale o manageriale poco coinvolgente, a creare una disaffezione del lavoratore verso il lavoro in sé, e verso l’azienda in termini generali. Nel momento in cui un ambiente lavorativo viene considerato come negativo o non gratificante, oltre al quiet-quitting possono presentarsi anche assenteismo ed una alta percentuale di errori.
Il quiet-quitting riguarda anche noi? Come possiamo accorgercene? “Per comprendere meglio la situazione potremmo valutare il nostro attuale atteggiamento verso il lavoro, con quello di qualche tempo o anno fa e porci alcune domande” - spiega la psicologa Elisabetta Muccinelli - “È lo stesso? Ci sono stati cambiamenti? Nel presentarci ad altre persone, usiamo definirci secondo la nostra professione (esempio, “sono un avvocato” piuttosto che “faccio l’avvocato”)? Quanto ci ‘identifichiamo’ con i valori della azienda o dell’organizzazione per la quale lavoriamo?”
E qui si segnala un altro fenomeno di segno opposto: In voga negli anni 2000, scomparso dai dibattiti sul lavoro dalla crisi finanziaria del 2008, sta tornando in auge il fenomeno del ‘job creep’ (o work creep, cioè lavorare sempre di più in modo soprattutto volontario, con compiti extra, senza orario, incluso il weekend e la sera magari sperando in una promozione) . Divenire virtuali o ibridi significa approcciare in modo tutto diverso qualsiasi lavoro. Le richieste aumentano e nessuno vuole essere percepito come non disponibile, ha detto Kim Marie Thore, sul portale mondiale dedicato agli scambi professionali , Linked-In testimoniando una prassi purtroppo comune di lavoro che possiamo definire tossico. Anche qui entra la pandemia e lo smart working: abbiamo avuto in quel tempo una tale spinta a modalità e strumenti alternativi di efficenza che i tempi dedicati al lavoro si sono dilatati. con il risultato di aspettarci sempre tanto da noi stessi e dire troppi si ?
Pur non potendoci essere risposte valide per tutte le persone e per tutte le situazioni, come in molte altre situazioni, la soluzione migliore può essere quella di cercare un ‘giusto mezzo’, tenendo presente che anche un completo disinvestimento emotivo e motivazionale rispetto ad una attività che occupa una grande parte del nostro tempo, può potenzialmente avere delle ripercussioni non totalmente positive sul nostro benessere, così come il suo opposto, il work creep, il lavorare no limits.
Ritrovare il proprio work-life balance un efficace equilibrio psicologico tra lavoro e vita privata. Ma come?
Per chi lavora in smart working, darsi dei tempi più regolamentati e uno spazio apposito che sia dedicato unicamente alla mansione lavorativa, un ufficio in casa;
per chi lavora in presenza cercare di “non portarsi a casa” le emozioni, ovvero, nel caso il lavoro venga associato ad emozioni negative o conflittuali, non portare questa negatività anche nel proprio tempo libero, o nella vita relazionale e sociale;
e infine cercare di porre dei giusti limiti al super-lavoro, o negoziando le mansioni, o cercando una collaborazione con eventuali colleghi, o anche gestendo ferie e permessi in modo da evitare un accumulo di stress lavorativo.
“Qualora ci rendessimo conto che i nostri sforzi e le nostre “ribellioni silenziose” non generino alcun miglioramento al malessere psicologico legato alla sfera lavorativa, è importante trovare la forza e la motivazione di cambiare, voltare pagina” - sottolinea a nome di TherapyChat la psicologa del lavoro Simona Bocci.
Ma come orientarsi nella ricerca del lavoro con serenità?
Migliora la consapevolezza di te stesso e definisci il tuo obiettivo: prendi il tuo tempo per ripercorrere le tue esperienze professionali e di vita, mettere a fuoco le tue conoscenze e competenze, individuare un obiettivo professionale da perseguire attraverso un piano d’azione concreto.
Crea i tuoi strumenti efficaci partendo dal CV e profilo LinkedIn: dovranno valorizzare al meglio chi sei, ovvero il tuo ruolo, il tuo percorso esperienziale, le tue competenze tecniche e le tue soft skills, i tuoi risultati più̀ rilevanti, i tuoi obiettivi per il futuro.
Lavora sul tuo Personal Brand per mettere in luce la tua Unique Value Proposition: il Personal Branding fa riferimento alle strategie per promuovere sé stessi, le proprie competenze ed esperienze. Avere una strategia di Personal Branding definita ti dà l'opportunità di evidenziare i tuoi punti di forza e la tua Unique Value Proposition, ovvero ciò che ti distingue realmente dagli altri candidati.
Intercetta tutte le opportunità presenti sul mercato (anche quelle “invisibili”) attraverso la ricerca attiva ed il networking: solo il 20% delle opportunità di lavoro vengono rese pubbliche sul web: per questo motivo, non basta rispondere agli annunci e alle inserzioni, ma è importante diventare dei ricercatori di lavoro “proattivi”. Come? Definendo il tuo target e indirizzando la tua auto-candidatura agli interlocutori giusti (possibili hiring managers che possono realmente apprezzare la tua professionalità), ampliare il tuo network e coltivare le relazioni, prendere parte a eventi e iniziative che riguardano il tuo settore: in questo modo potrai farti conoscere e aprirti piccoli spiragli che nel tempo potranno trasformarsi in importanti opportunità.
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