I primi segnali emessi da un terremoto possono consentire di tracciare l’evoluzione della frattura del suolo nel tempo, permettendo di individuare con alcuni secondi di anticipo le aree più colpite dalle onde sismiche in arrivo. Lo indica lo studio italiano pubblicato sulla rivista Nature Communications Earth & Environment e condotto dall’Università Federico II di Napoli e dall’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
I ricercatori suggeriscono che questi dati potrebbero essere utilizzati per un sistema di allerta in tempo reale, con tempi di preavviso compresi però solo tra 10 e 60 secondi. “Per condurre il nostro studio abbiamo utilizzato un avanzato metodo di previsione dello scuotimento del suolo – dice Luca Elia di Ingv e Università Federico II, tra gli autori della ricerca – basato sulla misura delle prime onde P”, le più veloci tra quelle generate da un terremoto e dunque le prime che vengono avvertite da una stazione sismica. “In questo modo – aggiunge Elia – si possono predire le aree in cui il moto del suolo supererà una soglia limite di danno potenziale”.
Per valutare l’efficacia del sistema, i ricercatori hanno analizzato i dati registrati durante il devastante terremoto di magnitudo 7.8 che il 6 febbraio 2023 ha colpito Turchia e Siria. I risultati hanno mostrato come una prima allerta, emessa circa 10 secondi dopo l’origine dell’evento, avrebbe portato ad avvisare correttamente il 95% dei siti all’interno della zona potenzialmente danneggiata, con tempi di preavviso compresi tra 10 e 60 secondi. “Ciò potrebbe migliorare la sicurezza degli abitanti delle aree sismiche – conclude Elia – e mitigare il rischio di danni ingenti”.
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