Tristi occhi virtuali, lamenti provenienti da altoparlanti metallici e braccia tremanti: oggettivamente, sappiamo che un robot non può provare dolore, eppure basta molto poco per farci dispiacere e provare compassione per queste macchine. Lo dimostra lo studio condotto da Marieke Wieringa della Radboud University, nei Paesi Bassi, e alla base della sua tesi di dottorato. La ricercatrice avverte che la capacità umana di provare compassione anche per oggetti inanimati potrebbe presto essere sfruttata e manipolata dalle aziende.
Sulla base dei risultati dei test condotti nell'ambito della ricerca, Wieringa e colleghi hanno studiato come le persone reagiscono ad atti di violenza contro i robot. "A volte il robot non rispondeva in alcun modo, mentre altre volte - dice la ricercatrice - reagiva con suoni pietosi o gesti che associamo al dolore". Mentre i partecipanti non avevano problemi con i robot che non mostravano alcuna emozione, è risultato ben presto evidente che gli automi in grado di suscitare compassione facevano sentire le persone molto più in colpa.
Secondo Wieringa, la ricerca evidenzia la necessità di norme che stabiliscano i casi in cui è consentito, a robot, chatbot e simili, di simulare emozioni. "È anche vero, però, che i robot emotivi avrebbero alcuni vantaggi. Per esempio, osserva la ricercatrice, potrebbero essere utilizzati nelle terapie riabilitative tese ad aiutare chi ha avuto un trauma. Ci piace pensare di essere creature molto logiche e razionali che non si fanno ingannare facilmente, ma alla fine a guidarci sono anche le nostre emozioni: e va bene così, altrimenti - conclude Wieringa - saremmo robot anche noi".
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