(di Fausto Gasparroni)
(ANSA) - CITTÀ DEL VATICANO, 11 MAR - Il pastore è "colui che
deve stare davanti alla gente per indicare la strada, in mezzo
alla gente per vivere la sua esperienza, dietro per aiutare i
ritardatari e, a volte, seguire l'intuito per trovare i migliori
pascoli. È quanto ho cercato di fare da quando sono stato
ordinato sacerdote e in questi anni di pontificato, sempre con
il forte proposito di essere fedele a Dio e alla Chiesa e utile
ai cattolici e a tutti gli uomini di buona volontà". E' il
ritratto che papa Francesco distilla di sé stesso nel volume "El
pastor" (Il pastore), uscito in Argentina in vista del decennale
dell'elezione a firma dei giornalisti Francesca Ambrogetti, ex
responsabile dell'ANSA a Buenos Aires, e Sergio Rubin, del
quotidiano El Clarin, che racconta questi dieci anni di
pontificato analizzandone dettagliatamente temi e vicende
attraverso periodici colloqui avvenuti nel corso del tempo con
il Pontefice.
"Spiegare, proporre, ascoltare, chiedere perdono quando è
opportuno e servire - riassume Francesco -. E fondamentalmente
con la vicinanza del cuore, sempre. Durante tutti questi anni,
con al centro lo Spirito Santo, la pace non mi ha mai lasciato".
Il racconto di questo decennio del Papa fa seguito a quel "Il
gesuita", scritto da Ambrogetti e Rubin quando Jorge Bergoglio
era ancora arcivescovo di Buenos Aires e diventato poi
bestseller mondiale con l'elezione a Pontefice. E proprio il suo
essere gesuita ricorre ancora nel libro, insieme a tanti altri
aspetti, sia di rilevanza pubblica che strettamente personale.
"Mi ha sempre colpito una massima con cui solitamente viene
descritta la visione di Sant'Ignazio: non avere limiti al
grande, ma concentrarsi sul piccolo. È fare le piccole cose di
ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. E
in effetti mi è servito e continua a servirmi molto, non solo
personalmente, ma anche per le decisioni del governo", spiega il
vescovo di Roma. E sulle innumerevoli e drammatiche prove del
presente, "credo che in un mondo con tante lotte di ogni genere,
anche religiose, sia necessario costruire ponti, promuovere
l'unità. Inoltre, ricordiamo che l'esclusione e la
disuguaglianza generano violenza. E la peggiore delle liti,
secondo me, è tra chi ha di più e chi ha di meno".
Ricorre naturalmente la sua visione della Chiesa, in tutte le
dimensioni possibili. "Sono contrario a quello che io chiamo
'carrierismo', voler fare carriera ecclesiastica. Come
nell'ambito civile, purtroppo accade anche nella Chiesa. C'è chi
vuole arrampicarsi e si comporta in modo simoniaco, cerca
influenze. Nel mio Paese li chiamiamo 'scalatori'. Questo non è
cristiano. Essere cristiani, essere battezzati, essere ordinati
sacerdoti e vescovi è puramente gratuito. I doni del Signore non
sono il frutto di sforzi, tanto meno il prodotto di una
transazione pecuniaria. Più di una volta ho detto durante il mio
pontificato che il carrierismo è come una peste. Essere
cristiano, essere prete, essere vescovo, è solo un dono".
Anche lo 'humour' dell'uomo-Francesco risalta come uno dei
suoi caratteri essenziali. "Ci tengo a precisare che durante
tutta la mia vita sacerdotale sono stato felice e lo sono
ancora. Inoltre, mi viene in mente una frase molto carina di
Chesterton che dice che la vita è una cosa troppo importante per
prenderla seriamente. E non mi dispiace per il passare degli
anni. L'ho sempre preso come qualcosa di naturale". E rivela di
non avere paura della morte: "Sono consapevole che può
succedermi di tutto. È difficile evitare del tutto il rischio di
attacchi suicidi. Ciò è stato dimostrato negli ultimi anni con
le azioni dell'Isis. Quando prego dico a Dio che sono nelle sue
mani. Se deve succedermi qualcosa, accadrà inevitabilmente
perché non ho ottenuto un certificato di eternità. Un giorno
morirò di bronchite, tumore o proiettile. O per un 'mate'
avvelenato tra quelli che mi dànno gli argentini durante le
udienze generali, come mi aveva avvertito un capo della
sicurezza". Infine, il Papa 86/enne sintetizza la sua ricetta
per la felicità: "Non c'è una formula. Ma quando la vita
interiore è racchiusa nei propri interessi e non c'è spazio per
gli altri, non si gode più la dolce gioia dell'amore perché non
si può essere felici da soli. La gioia non è l'emozione di un
momento: è un'altra cosa!". Secondo Francesco, "la vera gioia
non viene dalle cose, dall'avere, no! Nasce dall'incontro, dalla
relazione con gli altri, nasce dal sentirsi accettati, compresi,
amati e dall'accogliere, comprendere e amare; e questo non per
un momento, ma perché l'altro, l'altro è una persona".
Insomma, "la felicità viene solo amando e lasciandosi amare.
E tenete presente che, come dice il detto popolare, 'finché c'è
vita, c'è speranza', ma anche il contrario: 'finché c'è
speranza, c'è vita'". (ANSA).