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PressRelease
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Responsabilità editoriale di NEW LIFE BOOK
PressRelease - Responsabilità editoriale di NEW LIFE BOOK
New York, maggio 1983. La città brulica di vita, con i suoi grattacieli che sono monumenti al sogno americano, costruiti sul desiderio di grandezza e sulle infinite possibilità del Nuovo Continente. Eppure, per Daniele Breviglieri, il protagonista del libro “I tempi felici emersi dalle pietre della memoria” (Gruppo Albatros il Filo, aprile 2024) questa città incarna un paradosso: un luogo di aspirazioni moderne, ma anche un labirinto in cui riaffiorano la nostalgia e le ferite del passato. È un italiano catapultato in questo affascinante teatro degli opposti, un giovane ingegnere che, tra le luci di Manhattan e i suoi scorci indimenticabili, cerca di inseguire un’idea di felicità mai realmente raggiunta.
L’autore cagliaritano Oreste Fasi restituisce ai suoi personaggi una parte della propria esperienza biografica: ingegnere, si avvicina al mondo industriale lavorando in Lombardia e in Friuli, poi, animato da una curiosità inesauribile e da un interesse profondo per le relazioni umane e le culture internazionali, intraprende una carriera ricca di viaggi, soprattutto in America Latina. Lì fonda una società commerciale volta a vendere macchine e impianti nei Paesi del Sud America e acquista una Hacienda in Argentina, un progetto che, seppur promettente, verrà poi ostacolato dalle crisi economiche degli anni Ottanta. Questa esperienza lo porta a trasferire l'attività negli Stati Uniti, dove assume la carica di vicepresidente di una società di importazione di cibo italiano.
Il cuore del romanzo pulsa proprio in questa atmosfera culturale italoamericana, nel quale il ritmo convulso della vita americana fa da contraltare al richiamo della tradizione italiana. Nella New York di Fasi, incontriamo una galleria di personaggi che incarnano il sogno americano, la promessa di una felicità accessibile a chiunque, ma anche altri in cui emerge quanto la profondità della cultura e il senso di appartenenza sono spesso sacrificati sull’altare del successo e dell’effimero. La megalopoli stessa emerge come un organismo vivente: le sue strade e i suoi quartieri sono un intreccio di storie nascoste, di memorie che sembrano risvegliarsi a ogni passo. Il testo si popola a volte di riflessioni nostalgiche per il proprio Paese natale, altre della fascinazione per un futuro sconosciuto: non è solo la storia delle persone, dei personaggi che costellano la narrazione, ma anche di un’epoca e di tutti i suoi chiaroscuri. L’unica certezza sembrano essere i rapporti, i legami: fondamentale sarà il rapporto con Giorgio, un collega che per Daniele diventa un modello di riferimento. Quando i due si ritrovano insieme a osservare e interpretare il mondo intorno a loro, Giorgio rappresenta spesso una voce di saggezza distaccato, un uomo cosmopolita raffinato e dotato di un’innata eleganza, che riesce a smorzare l’irrequietezza di Daniele con l’ironia e il senso pratico che bilanciano le preoccupazioni dell’amico. È un rapporto che si nutre anche di piccole gelosie e incomprensioni, ma nel quale l’uno trova sempre, nell’altro, lo specchio attraverso cui osservare e comprendere pienamente sé stesso.
Il ritmo della narrazione è una sinfonia jazz, immersa nella nebbia del fumo di sigaretta e in quell’audace spensieratezza di chi non ha nulla – o quasi nulla – da perdere. Le note si dipanano senza una direzione apparente, fluiscono liberamente, animandosi e quietandosi come il traffico notturno di Manhattan. Oreste Fasi imprime un’energia pulsante alla narrazione: ogni personaggio e ogni ricordo emergono e si dissolvono come frammenti di una melodia interrotta, eco di note e pause che si fanno via via più profonde. La voce narrativa riflette da una parte l’inquietudine, dall’altra i desideri del protagonista, dove non mancano il piacere della trasgressione e della libertà. Il tono della narrazione non perde mai una certa leggerezza disillusa, a volte lontana e meno scintillante rispetto al mito del sogno americano: si rimanda spesso alla natura effimera dei sogni e alla ricerca di qualcosa di più profondo – un legame, una casa, una felicità duratura. Ed è qui che la prosa di Fasi si colora anche di sfumature malinconiche, nel gioco di memorie in cui le voci si accavallano, si sovrappongono e poi svaniscono, ma in cui anche le pause e il silenzio sembrano avere qualcosa da dire.
Non mancano, nel romanzo, episodi carichi di tensione sensuale e di ricerca intima. Negli anni Ottanta New York era un crogiolo di culture in cui si respirava un’aria di libertà molto diversa da quella che il protagonista aveva conosciuto in Italia, che rimaneva vincolata a una certa riservatezza. Daniele si trova a vivere questa nuova dimensione con una certa curiosità, come se lontano da casa non esistessero questi vincoli invisibili: la distanza tra due persone si riduce, in un susurro, uno sguardo diretto, un sorriso allusivo. È in questo spazio, quasi onirico per lui, che supera i propri limiti ed esplora non soltanto il piacere, ma soprattutto una nuova dimensione di sé.
La lingua del romanzo si muove agilmente tra italiano e inglese. I dialoghi mescolano spesso le due lingue, a volte per una necessità pratica, altra per il bisogno di esprimere idee e concetti estranei al contesto culturale dell’interlocutore. Il lettore è partecipe di questo incontro di mondi: l’inglese diventa veicolo di nuove esperienze e libertà, altre volte si tramuta in un limite insormontabile, specialmente quando notiamo, in alcuni personaggi, l’imbarazzato utilizzo di una costruzione italiana sul vocabolario anglofono. L’utilizzo di un inglese corretto è invece sinonimo di status, di capacità comunicativa, della possibilità di assolvere al bisogno di raccontare e raccontarsi. Quando Daniele si rivolge a sé stesso in italiano i toni si fanno più introspettivi, mentre in inglese la narrazione assume toni più diretti, che comprendono una certa ironia e leggerezza. La lingua, dunque, è un ulteriore strumento narrativo che Fasi usa con abilità per sottolineare la complessità della ricerca di identità dei personaggi in una città che parla tutte le lingue e che non si lascia mai veramente possedere.
Le descrizioni di Oreste Fasi si stendono come spesse pennellate di colore a olio: l’ambiente in cui si muovono i personaggi è intriso di un realismo tangibile, in cui ogni dettaglio emerge con precisione ed evoca immagini nitide, materiche. Gli strati di colore e le texture si sovrappongono per creare immagini ricche di profondità, come la brezza fresca che spazza via l’afa lungo l’Hudson o le luci soffuse dei bar. La scelta delle parole, sempre ricca e precisa, rende ogni scena un tableau vivant, un frammento di vita cristallizzato che il lettore può quasi toccare.
Nonostante l’opulenza scintillante di New York e le avventure straordinarie che ospita, lo sguardo sul passato è spesso velato di malinconia. Il narratore si interroga sul significato autentico di quei “tempi felici” che sembrano ormai svaniti, lasciando dietro di sé solo l’eco dei ricordi. L’idea della felicità è sfuggente, una dimensione incompiuta che appare e scompare come una luce lontana nel traffico di Manhattan. Ora quei momenti vissuti nella grande città sembrano assumere una sfumatura mitica, come se fossero stati soltanto il riflesso di un ideale mai davvero raggiunto. Fasi riesce a rendere palpabile questa consapevolezza: la felicità, in fondo, non è mai stata una meta stabile, ma un percorso fatto di attimi e incontri, di frammenti che, anche se sfuggenti, hanno lasciato un’impronta indelebile. Così ogni ricordo diventa una “pietra della memoria”, la silenziosa testimonianza di una felicità sognata più che vissuta.
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