(di Franco Nicastro)
ANDREA APOLLONIO, A COSA SERVE IL
RICORDO (SCIASCIA EDITORE, PP 132, EURO 12). Quando nel 1971
furono uccisi a Palermo il procuratore Pietro Scaglione e
l'agente Antonio Lorusso le reazioni furono molto forti. Per la
prima volta veniva eliminato un magistrato. Ma nell'intervento
del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat al plenum del
Csm non venne pronunciata la parola mafia. Trovarono spazio solo
lo "sdegno" e l'auspicio che i responsabili dell'"efferato
delitto" fossero individuati. Bisognerà aspettare 50 anni perché
a Scaglione venisse data da Sergio Mattarella la medaglia d'oro
al valore civile.
Quella di Scaglione fu la prima commemorazione di un
magistrato pronunciata dal capo dello Stato. Ne seguirono tante
altre per ricordare vittime dei poteri criminali oppure del
terrorismo. Andrea Apollonio, pm in Sicilia, ha selezionato 14
di questi interventi, ora raccolti nel volume da lui curato per
l'editore Salvatore Sciascia, "A cosa serve il ricordo", con
prefazione di Giovanni Salvi e postfazione di Giovanni Bianconi.
Il libro è un'operazione di memoria che ritorna e in qualche
passaggio divide ma riesce a cogliere i drammi personali dei
magistrati uccisi e anche il senso di quei delitti. La mafia
sparava per fermare le indagini sul sistema di "coabitazione"
tra la criminalità organizzata e il potere politico. E per
questo le vittime erano soprattutto pubblici ministeri. Solo in
un caso venne colpito un giudice, Antonino Saetta, che si
apprestava a presidente in appello il maxiprocesso. E allora si
comprese che le intimidazioni mafiose ora toccavano anche la
magistratura giudicante. C'era stato un salto pericoloso.
Il terrorismo caricava invece i suoi crimini di uno scopo
eversivo: gli obiettivi, osserva Bianconi, erano infatti
"simbolo di uno Stato da abbattere".
Toccò a Sandro Pertini, il presidente partigiano, affrontare
le due emergenze parallele - mafiosa e terroristica - e a
pronunciare il più alto numero di discorsi commemorativi. Fu
Pertini a doversi occupare, tra un funerale e una
commemorazione, addirittura dell'uccisione del vice presidente
del Csm, Vittorio Bachelet, con la quale si era "voluto colpire
il vertice della magistratura, il vertice del pilastro
fondamentale della democrazia". Era il 1980, l'anno in cui
vennero uccisi anche tre magistrati in tre giorni.
Fu Francesco Cossiga a fare i conti con l'agguato a un
giudice "ragazzino", come era stato definito Rosario Livatino,
ucciso con ferocia mentre in auto, e senza scorta, si recava in
tribunale. Quella volta Cossiga fece un lungo discorso, a tratti
tormentato, con il quale denunciava che parlamento, governo e
partiti avevano lasciato ai magistrati la prima linea nella
lotta alle mafie costringendoli così a "esorbitare dalle proprie
funzioni". Quella di una magistratura protesa verso campi di
intervento non propri era stata una delle "esternazioni" di
Cossiga che avevano sollevato tante polemiche.
Il confronto, e talvolta lo scontro, tra magistratura e
politica è un elemento che segna vari passaggi dei 14 discorsi.
Soprattutto quelli più recenti come l'intervento tormentato di
Giovanni Spadolini, presidente del Senato e capo provvisorio
dello Stato, al plenum del Csm riunito a Palermo due giorni dopo
la strage di Capaci. Quella volta il Csm fece i conti in un
clima incandescente con le ostilità e le delegittimazioni di cui
erano stati destinatari Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e il
pool antimafia. E anche questo viene dalla memoria rievocato nel
libro sin dal titolo.
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