(di Paolo Petroni)
Quello di Giancarlo Sepe è puro
teatro di poesia, non perché sia scritto in versi come le
tragedie greche o i drammi di Mario Luzi, ma per una capacità di
cogliere un'essenza, di andare a fondo, di esprimere e
comunicare magari per lampi un sentimento, un senso per
descrivere il quale le parole sarebbero un limite, mentre la
visione diventa coinvolgente. E' quel che accade, più che in
ogni altro suo spettacolo, in ''Favole'' di Oscar Wilde, che,
prodotto dal Teatro di Toscana, torna ora a Roma sino al 17
aprile nel suo spazio La Comunità e sarà poi a Firenze, a dieci
anni dall'ultima ripresa e a 25 da quando nacque, superando
allora le 300 repliche e ottenendo il premio Olimpici del Teatro
e, nella registrazione video per Palcoscenico Rai, fu l'unica
opera tv italiana a ricevere nel 2002 un riconoscimento al Prix
Italia.
Per ideare uno spettacolo come questo ci voleva la pazzia
immaginifica, la geniale follia creativa di Sepe che nel piccolo
spazio del suo teatro costruisce una macchina impressionante e
suggestiva, quasi la cavea di un anfiteatro circondata da pareti
circolari con la pedana tonda su cui siedono gli spettatori che
gira per permettere loro di seguire quel che accadde tutto
attorno sulle pareti, dove si aprono e illuminano via via
feritoie, finestre di varie dimensioni, rivelando immagini,
spazi, attori, quasi immagini di una lanterna magica che
prendono vita, sostenute dalle musiche di Davide Mastrogiovanni,
anche nella loro talvolta ripetitività ipnotica, che finisce per
diventare coinvolgente.
Si gira osservando, in un'oscurità illuminata ogni tanto da
pochi colori, una sorta di puzzle poetico, l'agitarsi di ombre,
evocativi teli svolazzanti, fiori foglie e gemme come in un
passare di stagioni, mani che si agitano inquiete, espressioni
di sofferenza, di risveglio, di momenti intimi, un abbraccio, un
trepido bacio tra paura e passione, di attori che vagano come
prigionieri, che leggono o scrivono, si seguono e si
sorprendono, si ritrovano tra angoscia e speranza, con lo
spettatore che guarda quanto essi guardano lo spettatore in un
gioco di reciproca intimità.
Per questo ci vuole un gruppo di ottimi attori, capaci di
esprimere quasi a freddo, solo col viso, col corpo o una sua
parte, un ventaglio raffinato di emozioni mutevoli con una
intensità che deve arrivare in platea. E' giusto così nominarli
tutti e sette: Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La
Stella, Aurelio Madraffino, Riccardo Pieretti, Federica
Stefanelli, Michele Dirodi, davvero a lungo applauditi alla
fine, assieme al regista-autore di questa intensa, misteriosa,
fascinosa ora assolutamente da non perdere.
Possiamo dire che questo è lo spettacolo più cinematografico
di Sepe, non per contenuti e suggestioni, come quasi sempre è
accaduto con suoi lavori passati, ma per forma, tutto apparendo
qui frutto di un montaggio, sequenze di fotogrammi, brevi
immagini, non con una natura narrativa, ma tutta emotiva. Così
questo ci appare anche lo spettacolo più personale di Sepe, che
si mette in gioco, scrive i brevi testi tra queste visioni, e
più un artista va a fondo di se stesso, più il suo io si annulla
diventando universale, avendo un valore esemplare e
esistenziale.
E alla fine di tutto questo dove è Oscar Wilde, del quale
compare due o tre volte una piccola galleria di ritratti, come a
cesura da momenti diversi? ''Più che narrare, si sondano i
territori della favola. Gli umori che presiedono alla loro
lettura - suggerisce lo stesso Sepe - E' come descrivere lo
stato d'animo che porta alla necessità del racconto favolistico,
la spinta a varcare quella soglia che divide l'uomo, immerso
nella sua realtà' quotidiana, dal realismo magico del
sentimento, che pure lo attraversa nella vita di tutti i giorni
e al quale non cede per pudore o per paura di sprofondare
nell'analisi del proprio sentire''.
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