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In evidenza
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(di Marzia Apice)
VITALIANO BRANCATI, I FASCISTI
INVECCHIANO (ELLIOT, pp.70, 9.50 euro) - La retorica vuota e
mortifera del regime di Benito Mussolini, gli strilli della
propaganda, la violenza cieca e colpevole della guerra,
l'antifascismo "invecchiato", "illanguidito" e amareggiato
"dall'abitudine all'insuccesso", e ancora il servilismo di chi
dichiarava di "non fare politica" e "lavorare per dare il pane
ai propri figli" mentre si inchinava di fronte ai gendarmi. Ha
un passo provocatorio, beffardo e dissacrante la scrittura di
Vitaliano Brancati nei testi che compongono la raccolta de "I
fascisti invecchiano", in libreria con Elliot.
A metà tra il saggio e la narrativa, nel solco stilistico e
tematico dei romanzi, gli otto scritti presenti nel libro (che
venne pubblicato per la prima volta nel 1946 da Longanesi)
scattano una fotografia perfetta del regime e del popolo
italiano durante il Ventennio. Brancati si mostra impietoso pur
mantenendo un approccio comico, e osserva con gli occhi
dell'intellettuale acuto e disincantato la dittatura che si era
appena conclusa. Lo fa prendendo di mira le simbologie (dalle
teste rasate agli stivaloni e alle camicie nere, dagli annunci
roboanti per impressionare le folle al culto della virilità) e
cristallizzando sulla pagina scritta alcuni comportamenti tipici
degli italiani del tempo, tra debolezze, vigliaccherie e
fragilità, i cui echi arrivano fino a oggi.
E non risparmia un'analisi tanto puntuale quanto amara:
"Qualcuno obietterà che bisognava opporre l'eroismo vero a un
eroismo falso, il sacrificio estremo per una causa profondamente
giusta al sacrificio estremo per una causa sedicente giusta.
Questo è accaduto dopo", scrive nel volumetto, "Ma fra il '36 e
il '43, le condizioni morali e mentali erano così basse, le
coscienze così disposte a ingannarsi, le voci della menzogna
così numerose e assordati che le divise dei veri e dei falsi
eroi si sarebbero confuse". Ma, se è forte la vis satirica nei
confronti della società, Brancati è altrettanto duro anche verso
se stesso. Anche lui infatti all'inizio fu infatuato da
Mussolini e organico al regime ("il fascismo lo reputai una
religione", scrive). "Quel credere non si sa bene a che cosa...
era un gradevolissimo e sicuro antidoto del pensiero: quel
credere si risolveva in sostanza nel categorico invito a non
pensare", scrive quasi confessandosi l'autore siciliano,
consegnando al lettore pagine godibili e dense di significato,
capaci ancora oggi di parlare al presente.
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