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Responsabilità editoriale di Advisor
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"Le nostre strategie sostenibili sono legate ai 17 SDGs, gli Obiettivi di Sostenibilità delle Nazioni Unite e sono focalizzate in particolare su tre macro temi: clima, salute e tecnologia. Questi temi rappresentano il futuro" racconta Elisa Bruscagin (nella foto), retail sales advisor di AllianceBernstein (AB). Per l'esperta si stima infatti che nei prossimi 10/15 anni questi 17 SDGs genereranno 90 mila miliardi di dollari di investimenti, ma l’aspetto più interessante è che il 20% di questo ammontare deriverà dagli enti pubblici mentre il restante arriverà dal settore privato.
Asset manager di matrice americana ma con una forte credenziale ESG. Come si concilia tutto ciò?
Siamo nati negli Stati Uniti negli anni ‘70 dalla fusione tra il wealth manager Alliance Capital e la società di ricerca Bernstein, due anime complementari che hanno dato vita alla società AllianceBernstein, o AB, come la conosciamo oggi. La ricerca è uno dei nostri punti di forza per il quale siamo riconosciuti anche da altri gestori. Negli USA siamo stati tra i primi ad approfondire ed impegnarci sulle tematiche ESG, anticipando molti altri player statunitensi, tradizionalmente meno sensibili ai temi dell’investimento responsabile rispetto al Nord Europa.
AB infatti investe in modo responsabile da molti anni. Nel 2011 abbiamo affinato e formalizzato il nostro approccio firmando i Principi per l'investimento responsabile (PRI) promossi dalle Nazioni Unite. A questa iniziativa ne sono seguite altre tra le quali cito anche l’adesione nel 2015 al Carbon Discloure Project. Abbiamo firmato come altri asset manager la carta legata ai 17 SDGs dell’ONU e tante altre iniziative che oggi ci portano ad avere essere uno dei pochi asset manager in Italia che può vantare una gamma di qualità, con decine di comparti in tutte le asset class classificati come art. 8 e 9.
Questo ci è stato riconosciuto anche dal mercato che ha premiato la nostra eccellenza. Devo dire che una forte spinta negli ultimi anni è derivata anche dalla partnership con la Columbia University che ha rafforzato la nostra capacità di misurare i rischi e le opportunità derivanti dal cambiamento climatico. La partnership è attiva da più di cinque anni, ed è partita inizialmente come una collaborazione, che si è poi consolidata in un progetto di formazione pilota, unico e raro, con la divisione della Columbia University specializzata nello studio dei cambiamenti climatici, ossia l’Osservatorio per la Terra, che ha portato grandi expertise ai nostri analisti e portfolio manager che così hanno potuto completare le loro competenze finanziarie con tutta una parte più scientifica legata ai cambiamenti climatici.
L’Osservatorio per la Terra ci aiuta a capire tutte le implicazioni che i cambiamenti climatici hanno e avranno anche a livello socio-economico e quindi anche finanziario, traducendosi così in una migliore scelta delle società in cui investire.
Amplierete questa formazione derivante dalla partnership con la Columbia University anche ai distributori?
Il progetto è partito inizialmente per gli analisti e i gestori di AB, successivamente abbiamo iniziato a mettere a disposizione dei nostri clienti questo programma e stiamo valutando se rendere disponibile questo corso di formazione anche per le reti, nei prossimi anni. E’ un percorso che va declinato, perché prevede otto moduli ampi e dettagliati, che vorremmo declinare al meglio affinché sia fruibile per i consulenti finanziari e i private banker. Sicuramente pensiamo che potrebbe rappresentare un valore aggiunto per i nostri partner. E siamo convinti che ci sia ancora tanto da fare in termini di formazione e informazione. La normativa ha tolto qualche nube con l’introduzione della distinzione tra art. 8 e 9 ma serve maggiore chiarezza, non solo per scontare il pericolo di greenwashing, ma anche per scegliere con maggiore consapevolezza il fondo più adatto a ciascun investitore.
La scelta sostenibile non è stata premiante nell’anno che ci siamo lasciati alle spalle. Faticherà ancora?
Noi pensiamo che tra le cause che hanno penalizzato l’andamento dei fondi sostenibili ci sia il conflitto russo-ucraino, che ha posto dall’insorgere un problema energetico da risolvere, e sappiamo che le fonti rinnovabili non possono ad oggi sopperire alla mancanza di altre fonti di approvvigionamento.
Quello che abbiamo osservato fin dall’inizio dell’anno scorso è stata una correzione molto forte su tutte le asset class, che non ha lasciato vie di fuga, in quanto generalizzata sia sulle asset class più rischiose che su quelle più difensive. Quello che però abbiamo osservato in merito agli investimenti ESG è che la correzione è stata in buona parte dovuta a una rotazione di stili: i titoli growth sono stati penalizzati da inizio anno e le strategie sostenibili sono per la maggior parte delle strategie tematiche growth.
Riteniamo che la forte correzione che ha interessato le strategie sostenibili sia dovuta a una rotazione dello stile di gestione più che a un disinnamoramento degli investitori nei confronti delle strategie sostenibili, se infatti guardiamo agli afflussi che ci sono stati nel 2022, ma anche nel 2021 vediamo che la crescita è strutturale.
La chiave come sempre è la flessibilità e la libertà d’azione. Ad esempio per noi è stato benefico il focus sul tema della salute, che si è dimostrato maggiormente difensivo rispetto al settore tecnologico e al mercato nel suo complesso.
Le nostre strategie sostenibili infatti sono legate ai 17 SDGs, gli Obiettivi di Sostenibilità delle Nazioni Unite e sono focalizzate in particolare su tre macro temi: clima, salute e tecnologia. Questi temi rappresentano il futuro. Si stima infatti che nei prossimi 10/15 anni questi 17 SDGs genereranno 90 mila miliardi di dollari di investimenti, ma l’aspetto più interessante è che il 20% di questo ammontare deriverà dagli enti pubblici mentre il restante arriverà dal settore privato.
Se nel breve, come lei suggerisce è bene guardare a strategie diversificate, dove guardare invece nel lungo termine? Come coniugare i due aspetti?
Nel breve guardiamo a strategie diversificate che hanno la possibilità di lavorare su temi difensivi, mentre nel lungo periodo guardiamo a trend che vediamo ancora sotto-traccia come quello della biologia sintetica che riteniamo possa essere disruptive per i prossimi anni, e che è molto trasversale a temi come la salute, la tecnologia, la parte climatica. La biologia sintetica nasce in America negli anni 2000 ed è un ibrido tra l’applicazione dell’ingegneria chimica e molecolare alla chimica vera e propria. Permette la creazione di sistemi biologici in laboratorio; ed è molto interessante perché permette di ridurre l’utilizzo di materie prime che saranno ricreate in laboratorio. Secondo l’ultimo studio di Mc Kinsey del 2020 la biologia sintetica porterà a un risparmio di 1700 miliardi nei costi di produzione, e avrà un impatto importante perché oltre ad abbattere i costi di produzione porterà a un risparmio delle materie prime con un impatto ambientale significativo. Lavorerà anche sull’efficientamento dei processi produttivi coniugando risparmio e una migliore gestione di quello che produciamo.
Ci sono altri trend che considerate interessanti da valutare?
Non c’è un trend specifico, quello che vediamo più interessante è un trend geografico più che tematico. Stiamo riscoprendo in generale gli USA, perché con la presidenza Biden hanno segnato un cambio di rotta importante. Inoltre il governo ha lavorato all’approvazione di un piano di infrastrutture di 700 miliardi di dollari, e poco più della metà sono destinate alla transizione energetica. E’ un piano record per gli USA.
Un altro elemento importante è che rispetto al passato che vedeva ad esempio tra le start-up che ricevevano maggiori finanziamenti le fintech; oggi sono quelle start up che lavorano a soluzioni ambientali a ottenere i maggiori investimenti, e anche in questo caso è un cambio di rotta che ci dice dove sta andando l’attenzione degli investitori. A questo si aggiunga una situazione economico finanziaria che negli USA presenta maggiori punti di resilienza rispetto all’Europa. Inoltre, negli USA vi è una collaborazione molto stretta e proficua tra università e mondo imprenditoriale: ciò che oggi viene studiato e sperimentato dalle startup, domani è un prodotto veicolato sul mercato.
Tutti questi fattori ci portano a considerare positivamente gli Stati Uniti. AB è una delle poche case di gestione ad avere un fondo sostenibile tematico dedicato esclusivamente al mercato USA e anche in questo caso è un fondo che lavora su tre temi: clima, salute, tecnologia, i tre temi a cui il piano infrastrutturale è rivolto.
Altri progetti sul futuro, magari sul fronte impatto?
Abbiamo in pipeline il lancio di una serie di strategie che lavoreranno su obiettivi specifici, come ad esempio investire solo in società che sono ben posizionate per raggiungere la neutralità in termini di emissioni di carbonio. In quel caso quindi saranno strategie che lavorano su un obiettivo ben specifico, nel quale quindi sarà più evidente l’impatto, ma questo non è nulla di nuovo per noi, in quanto abbiamo già integrato l’impatto nelle nostre strategie e lo rendiamo misurabile nei nostri report. Nessun investimento infatti può essere a nostro avviso davvero sostenibile se non ha un impatto.
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