di Alessandro Logroscino
Ritorno al futuro sulla ruota di
Londra. Se in Europa continentale c'è chi guarda a destra,
l'isola della Brexit sterza stavolta in direzione opposta: verso
il centro se non proprio a sinistra, tornando ad affidarsi mani
e piedi al Labour - sotto la leadership moderata di sir Keir
Starmer - dopo 14 anni di governi e convulsioni Tory. "Io
servirò ciascuno di voi, che mi abbiate votato o no. Il Paese ha
votato per il cambiamento" ha detto il leader laburista nel suo
discorso di vittoria come deputato nel collegio londinese di
Holborn e St Pancras, dove è stato con oltre 18.000 suffragi e
con oltre 11.000 voti di vantaggio sul secondo candidato.
Gli exit poll ingigantiscono le previsioni, assegnando una
maggioranza storica (e la riconquista assicurata del governo) ai
laburisti con 410 seggi sui 650 della Camera dei Comuni. Frutto
anche dell'annunciatissimo tracollo dei conservatori del premier
uscente Rishi Sunak, affossati a quota 131, giusto un po' meno
peggio delle stime più nere ma comunque il loro minimo storico:
il record negativo precedente era stato raggiunto con le
elezioni del 1906, quando il partito allora guidato da Arthur
Balfour ottenne 156 seggi. Mentre l Liberaldemocratici centristi
di Ed Davey vengono proiettati a 61 e l'ultradestra di Reform UK
di Nigel Farage, con più voti previsti rispetto ai LibDem, ma
meno concentrati tra i seggi uninominali, può sperare (per la
prima volta) di portare a Westminster ben 13 deputati. E mentre
nei collegi della Scozia si certifica la caduta libera pure
degli indipendentisti dell'Snp, da 48 ad appena 10, sempre a
vantaggio del Labour. Si tratta di un suggello sostanziale ai
pronostici unanimi d'una campagna elettorale intensa, eppure
priva di suspense: sfociata nel voto odierno ma apparsa decisa
nei suoi esiti sin dal giorno uno della convocazione a sorpresa
a fine maggio delle urne da parte di Sunak, con qualche mese in
anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. Scommessa
kamikaze destinata in effetti a far scoccare solo un po' prima
del tempo l'ora di un risultato scontato, figlio d'un diffuso
sentimento di rigetto da fine ciclo del partito di governo più
che non della capacità d'attrazione dell'offerta programmatica -
prudente quanto vaga - starmeriana. Scenario che si traduce ad
ogni buon conto in una svolta generazionale. Nella fine di quasi
tre lustri di governi a guida conservatrice segnati da crisi,
scossoni, scandali, lacerazioni interne e cambiamenti di leader,
fra responsabilità proprie e conseguenze di terremoti
internazionali; oltre che dai contraccolpi - almeno per ora
largamente negativi - di quella sorta di gioco di prestigio che
è stato il referendum del 2016 sul divorzio dall'Ue, sfociato
nella Brexit. Una svolta consumata nel nome del ritorno alla
normalità, caratteristica per ora dominante del profilo da ex
procuratore della corona prestato alla politica del 61enne
Starmer; e che gli elettori desiderosi d'un cambiamento vero
(oltre lo slogan elettorale indistinto del 'change') sperano non
significhi normalizzazione. Ma che certo prefigura una netta
cesura rispetto agli istrionismi di un Boris Johnson, il più
controverso e divisivo (ma anche simbolicamente significativo)
fra i 5 premier della girandola Tory di questi 14 anni. La super
maggioranza in Parlamento che i primi dati ad urne chiuse
confermano fragorosamente lascia del resto margini di manovra
all'uomo incaricato ora di riportare le insegne del laburismo a
Downing Street dai tempi di Tony Blair e Gordon Brown. Un uomo
emerso politicamente nella corrente intermedia della 'soft
left', salvo spostarsi passo dopo passo su posizioni sempre più
centriste, il quale tuttavia promette di lavorare a un
miglioramento più equo delle condizioni di vita della "gente
comune" come antidoto alla "minaccia populista". Sebbene
escludendo di voler cavalcare i contrasti sociali o riaprire
ferite come la medesima Brexit, a cui fu a suo tempo contrario,
ma che adesso non intende rimettere in causa. Le priorità
programmatiche immediate riguarderanno semmai l'avvio accelerato
d'iniziative legislative ordinarie su temi ecumenici quali "la
stabilità e il rilancio dell'economia", la sanità, l'edilizia
pubblica, la sicurezza e il contrasto (senza piano Ruanda)
"dell'immigrazione illegale". In un contesto, già benedetto
dalle prime reazioni rilassate dei mercati e del business, a cui
si affianca l'impegno alla continuità sulla trincea dei
conflitti internazionali - sostegno senza quartiere all'Ucraina
in primis - e alla lealtà a Usa e Nato. Ai Tories toccherà
ripartire intanto dal baratro, con un nuovo leader dopo l'addio
inevitabile di Sunak. Per provare a riconsolidare almeno il
primato indiscusso a destra, minacciato da Farage e dal suo
Reform UK; e quello della leadership dell'opposizione
parlamentare ai Comuni, avvicinato - in uno scrutinio comunque
da incubo, senza precedenti in 190 anni di storia per il partito
fondato da Robert Peel nel 1834 - dai redivivi LibDem.
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