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Sopravvissuto Auschwitz: 'So dove porta ciò che accade ora'

Sopravvissuto Auschwitz: 'So dove porta ciò che accade ora'

Leon Weintraub: 'Testimone a 99 anni, mi batterò fino alla fine'

BERLINO, 25 gennaio 2025, 21:07

di Rosanna Pugliese

ANSACheck
Leon Weintraub © ANSA/EPA

Leon Weintraub © ANSA/EPA

Leon Weintraub ha 99 anni, è sopravvissuto ad Auschwitz e prende la parola per cederla soltanto dopo quasi due ore di racconto: "Io ho qualcosa da dire, perché per la mia personale esperienza so dove porta quello che sta succedendo oggi nel mondo".

In occasione dell'anniversario degli 80 anni di liberazione del più famigerato dei campi di concentramento del nazionalsocialismo di Hitler, all'ANSA da Stoccolma, dove vive, rievoca le principali tappe della sua vita: l'infanzia a Lodz in Polonia, la vita nel ghetto di Litzmannstadt, la prigionia ad Auschwitz, la fuga, la salvezza. L'incredibile incontro con le tre sorelle sopravvissute. E poi una seconda vita da medico ginecologo, sposato due volte e padre di ben quattro figli.

E un libro importante: "Riconciliazione col diavolo", tradotto in molte lingue, non ancora in italiano. Nel suo centesimo anno di vita continua a portare avanti la sua missione: "Sono nato il 1 gennaio 1926. Ho 99 anni. E sono molto contento e orgoglioso di essere ancora nelle condizioni di parlare, viaggiare e raccontare la storia e le conseguenze della spaventosa ideologia del nazionalsocialismo di Hitler". Perché così anziano ancora si presta allo sforzo, si chiede da solo? "Ho una specie di dovere morale nei confronti dei miei familiari uccisi. Di 80 parenti nel 1945 eravamo rimasti in 16: quindi 4 su 5 sono stati assassinati. Solo 1 su 5 è sopravvissuto. La seconda ragione è che non c'è altro esempio, così ben documentato, nella storia dell'umanità, di un Paese di cultura, al centro dell'Europa, che abbia avuto l'obiettivo di far fuori dal mondo un intero gruppo etnico. E, terzo motivo, nonostante questa documentazione, anche fra persone colte e ben istruite, oggi, nel mondo, c'è chi nega l'accaduto. Anche in Germania, Afd osa mettere in dubbio quello che è successo". "Perciò fino a quando sarò nelle condizioni di farlo, mi impegnerò per questa causa, per la democrazia e i diritti umani".

Il racconto di Leon Weintraub è molto dettagliato: "nel mio cervello ci sono delle immagini stampate". Figlio di una madre rimasta presto vedova con 5 bambini da crescere e una piccola lavanderia, il 1 settembre era "pieno di belle speranze", pronto per la scuola superiore. E invece ci fu la presa della Polonia da parte dei tedeschi, che ne avrebbe segnato per sempre infanzia e adolescenza. Leon ricostruisce la vita del ghetto, "trasformato in una grande impresa di lavoro: se servivamo ai nazisti rimanevamo in vita". Nei ricordi ci sono "una pagnotta da due kg a settimana da dividere in otto". E il giorno di settembre nel 1941 in cui arrivarono: "entrarono in tutte le case, in cerca degli inadatti al lavoro: bambini sotto i 10 anni, anziani sopra i 65 e malati. Portarono via 25 mila persone. Non avevamo idea di dove fossero finiti. Fu un grande lutto", in quel luogo "blindato" che non aveva accesso ad alcuna informazione da fuori. Solo voci. Si sofferma poi su "la parola fame". "Dal 1939 fino alla liberazione del 20 aprile 1945 - spiega - ho sofferto la fame. Il che significa non dormire per i dolori di stomaco. Alzarsi la mattina col cervello che aveva solo un pensiero: come posso ottenere qualcosa da mangiare per non morire di fame. Questa è la fame".

Auschwitz è un racconto straziante. Dopo il viaggio sul treno merci, fra i cadaveri di chi non ce l'aveva fatta, quell'ultimo incontro con la madre prima di separarsi per sempre, alle porte del lager. "Quello che ricordo è un silenzio mortale. Nessun suono di indignazione, nessun suono di delusione. Nessuno era in condizione di protestare". "Dove sono arrivato?", pensò. La quotidianità del lager gli fu davvero chiara solo dopo la guerra. "Mandarono a destra chi non era in grado di lavorare: mia madre e mia zia. Direttamente nelle camere a gas e nel crematorio. Per me iniziarono le procedure di de-umanizzazione. Fummo trasformati in oggetti, e saremmo rimasti in vita fino quando avremmo potuto essere utilizzati". La sua strategia? "Ero molto prudente. Cercavo di rendermi invisibile". Finì in un luogo dove prima c'erano stati i rom: "furono uccisi e venne fatto posto per noi. In questo edificio c'era sempre del fumo dall'odore di carne briciata". E in stato di prigionia, come al ghetto, fu impiegato come elettricista, nel lager di Groß-Rosen.

Il 25 febbraio del 1945, ammalato, fu consegnato per andare a Flossenbuerg, in quarantena. Poi la fuga da un treno che si era guastato, destinato al lago di Costanza, col piano (fallito) di affondarcelo coi detenuti a bordo. E l'incontro nello Schwarzwald con un soldato dalla divisa finalmente diversa, "color cachi". "Quando capì che eravamo ex prigionieri ci accolse dicendo 'Comment ça va?" 

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