"Questo film racconta una storia
di estrema solitudine, quella del protagonista Filippo in cui mi
identifico totalmente. Sono un disturbato proprio come lui,
anche io la sera prima di dormire parlo con i morti. Ne faccio
l'appello e la mia stanza si riempie di identità, come quelle di
mio padre e di mia madre che mi vogliono bene, mi rasserenano e
mi fanno dormire. Questo è comunque un film della maturità,
quando senti sempre più il bisogno di lasciare tracce". Così
Pupi Avati, 85 anni, racconta il suo L'Orto Americano, horror
gotico in bianco e nero spruzzato da elementi soprannaturali (ma
anche appunto autobiografici) e film di chiusura della 81/a
Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
Un modo, per il regista - che ha il record di partecipazioni
al Lido (ben dieci nella selezione ufficiale) - di tornare alle
origini, a 'La casa dalle finestre che ridono', horror del 1976
che vinse il premio della Critica al Festival du Film
Fantastique di Parigi, divenendo poi un film di culto.
Siamo nell'immediato dopoguerra a Bologna, ai tempi della
Liberazione: per un giovane aspirante scrittore (Filippo
Scotti), cinque romanzi non ancora pubblicati, è colpo di
fulmine per Barbara, una bellissima nurse dell'esercito
americano. L'anno dopo lo scrittore va nel Midwest americano
cercando di raggiungerla e va ad abitare in una casa contigua a
quella della sua amata, separata solo da un orto. Lì vive
l'anziana madre (Rita Tushingam), disperata per la scomparsa
della figlia che non ha dato più notizie di sé dalla conclusione
del conflitto.
Inizia così da parte di Filippo una grande avventura, quando
scopre nell'orto americano, in una teca, dei resti umani
femminili che potrebbero far riferimento a un pericoloso serial
killer. Da qui una ricerca che gli farà vivere una situazione
terrificante fino a una conclusione in Italia del tutto
inattesa.
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